Broken Songlines. Tre manoscritti

performing reportage

i m m a g i n i     r a c c o n t i     f i l m     s u o n i

di e con Monika Bulaj

durata 60 minuti

Performing reportage che racconta attraverso le immaginii le storie, i suoni, il viaggio dalla Cina all’Europa, Marco Polo au rebours, compagni di viaggio tre manoscritti antichi: uno nestoriano, uno buddista e uno sufi. In cammino, con pellegrini, nomadi e minoranze in fuga, cercando la bellezza nei luoghi più bui, e i luoghi sacri condivisi.

Nel Medio Oriente e sul Caucaso, in Asia e nelle Afriche degli esili, lungo i confini d’Europa, sotto i nostri occhi sta scomparendo la ricchezza della complessita, in quelle terre dove per millenni le genti hanno condiviso i santi, i gesti, i simboli, i miti, i canti, gli dei. I cristiani del Pakistan, i maestri sufi d’Etiopia e Iran, gli sciamani afghani, gli ultimi pagani del Hindu Kush e degli Urali, i nomadi tibetani, le sette gnostiche dei monti Zagros, sono le ultime oasi d’incontro tra fedi, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute dei fuggiaschi di oggi. Luoghi dove gli dei parlano spesso la stessa lingua franca, e dove, dietro ai monoteismi, appaiono segni, presenze, gesti, danze, sguardi.

Un viaggio tra i confini spirituali, nei crocevia dei regni dimenticati, dove scintillano le fedi e le tradizioni dei deboli ed indifesi, scoprendo la solidarietà nella guerra, le crepe nella teoria del cosiddetto scontro di civiltà, dove gli dei sembrano in guerra tra di loro, evocati da presidenti, terroristi e banditi. Monika Bulaj costruisce un atlante delle minoranze a rischio e dei luoghi sacri condivisi, la sua è una performance multimediale: sul grande schermo, luci e suoni danno vita alla scenografia naturale del luogo. Storie di amori e separazioni, resistenze e fughe, danze sacre e cammini, silenzi nei grandi spazi e masse che ondeggiano come alghe;  una narrazione improvvisata, di volta in volta adattata alla storia del luogo, ai suoi approdi e partenze. 

 

RECENSIONI

Sono le sue immagini a dirci quanto sia pericolosa la bellezza quando è al servizio del vero. Simone Azzoni, “Quel fango sotto i piedi tra guerre e cammini”, L’Arena. Verona, 2023.

 

Non ci sono parole per descrivere il lavoro di Monika Bulaj. È testimonianza. Bellezza traversata di dolore. Vita e umanità in stato puro. Quando presenta il suo lavoro dal vivo tutto tace e si riempie della luce del viaggio, del racconto, di una antichità ancora viva nei confini di un mondo che sembra a punto di sparire. Ma esiste ancora. Ed è proprio nelle periferie, dice, dove «accadono le cose». Attraverso gli scritti, le immagini, le musiche e le parole che sembrano cantate, più che dette, Monika Bulaj ci porta attraverso il sacro al di là le frontiere delle culture e delle religioni. «Non chiedermi di quale religione sono», le disse uno sconosciuto che la ospitò a Kabul, «ma se sono una persona buona».

E così inizia questo viaggio dove quello che conta non è la macchina fotografica, ma le scarpe perché «è un cammino dietro alle persone in fuga dalla follia dell’uomo». Un viaggio che parte dall’Afganistan ma arriva fino in Tibet, dove gli uomini vedono nella natura il corpo della divinità, per poi tornare a quell’altro confine che è Trieste, dove abita la fotografa. È un viaggio che parte dalla carta geografica, ma che vorrebbe «creare un atlante nuovo di geografia, un atlante che spezza le mappe mentali che sono alla base delle divisioni». Studiare è fondamentale, e questo ultimo progetto, intimamente unito a un altro raccolto nel libro Dove gli dei si parlano, nasconde tre manoscritti, uno buddhista, uno sufi e uno nestoriano, e si lascia guidare dai grandi poeti, mistici e filosofi di tutti i tempi.

«Questo lavoro è cambiato negli anni. All’inizio documentavo le piccole e le grandi religioni nelle ombre delle guerre antiche e recenti.

Ad un certo punto sono state le mie immagini a cercarmi, a parlare da sole, raccontando delle preghiere e dei sogni, dell’acqua e del fuoco, della memoria, del teatro, della festa dei morti, della via dei canti. Ora quello che faccio è una cosa semplice, quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della torre di Babele…

Forse solo questo può fare il fotografo: raccogliere tessere di un mosaico che non sarà mai completo, metterle nell’ordine che li sembra giusto, o forse solo possibile, sognando, quell’immagine intera del mondo che magari da qualche parte c’è, o forse c’era e s’è perduta, come la lingua di Adamo». Quando le immagini parlano e le parole sussurrano, Festivalletteratura Mantova